Tra i concetti più alterati dalla cultura di oggi c’è sicuramente quello di santità. Ne abbiamo un’immagine deviata, che spesso si associa esclusivamente a idee come la “straordinarietà” della vita e la “coerenza morale”. Guardiamo sotto questa lente anche l’antico simbolo dell’aureola, tanto significativo quanto incompreso.
Eppure non c’è nulla di più sbagliato. L’errore in questione ha una causa che non è difficile individuare: la tendenza ad applicare alla santità l’ideale di realizzazione umana suggerito dalla cultura dominante, non quello suggerito dalla Chiesa. E’ quell’ideale in voga da circa 600 anni (non per caso dalla fine di quel Medioevo che chiamiamo buio e oscuro) secondo cui, per essere realizzati, bisogna riuscire in qualcosa. Non basta essere uomini veri in rapporto al significato della vita, ma bisogna avere successo: essere un buon medico, giornalista, politico, mercante, etc. Insomma, essere “straordinari” in un particolare della vita.
Da qui tutta l’etica dei rapporti umani in voga oggi, quella secondo cui l’unico obiettivo sarebbe fare più dell’altro, sfidarlo e metterlo fuori gioco, con o senza qualche gomitata di troppo: è quello che accade in politica e nei posti di lavoro, nelle scuola con i bulli e tra gli stati con le guerre. Cambiano le forme, ma l’ideale è lo stesso.
Su questo punto potremmo facilmente prenderci in giro. Potremmo defilarci con la consueta disinvoltura e convincerci che questo ideale sbagliato non è il nostro, che riguarda “gli altri”, e che noi siamo solo le povere vittime di un mondo sempre più immorale. Del resto abbiamo da poco risvegliato, per questa ipocrita operazione, il sempreverde concetto di “casta”. Della quale, naturalmente, noi non facciamo mai parte!
Oppure potremmo provare a essere più sinceri, e confessare che l’ideale del “successo” è la prospettiva con cui quasi ogni mamma e papà guardano il proprio bambino già nella culla, sperando che per lui il futuro riservi una grande carriera. Quanti di loro, diciamoci la verità, desiderano per lui una vita santa, autenticamente umana? Quanti, insomma, vorrebbero davvero un figlio “santo” più che un figlio di successo?
O vogliamo riflettere, per esempio, sul pietismo con cui guardiamo l’esistenza di quelli che, per varie ragioni, non hanno la nostra stessa possibilità di successo: diversamente abili, malati e consimili? Come se il “bello della vita”, per gente così, non fosse veramente possibile…
Il bello della Chiesa è che se ne frega altamente di questo ideale del successo. In ogni circostanza, e perciò anche quando deve giudicare la santità di una vita. L’ho capito meglio nei mesi scorsi, quando, per buona sorte, mi è capitato tra le mani un libricino per molti versi eccezionale. E’ la trascrizione di quindici trasmissioni radiofoniche, tenute da Cyril Martindale per
Tra queste brevi “Vite” mi ha colpito in particolare quella di Sant’Ermanno, detto lo “Storpio” (1013-1054). Era l’ultimo dei 15 figli di una ricca famiglia di nobili tedeschi. Per lui era in programma un futuro roseo e pieno di successo. Quando venne alla luce, però, il programma dovette subire variazioni: il bambino nacque storto e contratto, non poteva star ritto e non riusciva a scrivere, aveva la lingue e il palato deformati e perciò parlava a stento. Insomma, uno di quegli embrioni che tante mamme, oggi, preferirebbero lasciar marcire in laboratorio. I suoi genitori, sempre in quel medioevo cui si accennava prima, non potevano ancora pensare a una cosa del genere, e perciò lo mandarono in clausura pregando per il suo bene. Nell’esperienza del convento gli capitò di comprendere che la sua vita non era nulla, che la sua venuta al mondo, pur storpio e brutto, non poteva essere inutile e senza senso. Proprio come quella di ogni uomo sulla faccia della terra! Questa coscienza, soffiata nel suo cuore dalla bellezza dell’annuncio evangelico (addirittura un Dio fatto uomo per il bene di tutti… ma proprio tutti, compreso lui!), lo aprì a una dedizione straordinaria. Si innamorò praticamente di tutto, della matematica, dell’arabo, del greco e della musica. Ma soprattutto imparò ad amare, con passione e letizia, quel microcosmo di fratelli che aveva attorno a sé in convento. Le biografie in latino lo ricordano come “amichevole e ridente”, sempre “lieto e disponibile per tutti”. Eppure, “neanche per un istante la sua vita fu liberata dal dolore” che quel suo corpo malfatto gli infliggeva.
Martyndale annota semplicemente questo. Nient’altro! Ermanno non ha salvato vite, non ha donato nulla ai poveri e non ha combattuto le ingiustizie del mondo. Non poteva: era chiuso in convento. Con lui, però, scopriamo che per una vita santa, per una vita autenticamente umana, basta davvero solo questo: l’affezione al proprio destino e a chi si proclama “strada” per compierlo,
Che ci possiamo fare se spesso, così facendo, si finisce per donare la propria vita contribuendo al bene del mondo? Studiando su una scrivania, come un certo Tommaso d’Aquino, al fianco dei poveri, come un certo Francesco d’Assisi, al fianco dei malati, come una certa Teresa di Calcutta, umanizzando la cultura e l’educazione, come un certo Giovanni Bosco, semplicemente pulendo le scale di un convento, come una certa Teresa del Bambin Gesù? Oppure ai confini del mondo, come un tal Francesco Saverio, per comunicare a tutti, instancabilmente, la bellezza straordinaria di quell’annuncio che cambia la vita?
Sono uomini che
Il bello della questione è che tutto ciò è possibile veramente per tutti. Sul trono di Inghilterra, come capitò a Sant’Edoardo (1003-1006), o sul letto di casa, come capitò alla “nostra” Luisa Piccarreta. E perciò, in fondo, è possibile anche per ciascuno di noi. Conoscete un’uguaglianza più “uguale” di questa?
Pino Suriano - www.ilquotidianodellabasilicata.it
1 commento:
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