5 set 2011

L'INTERVISTA - Wilma Vernocchi, soprano alla Scala: una timida di successo

Io la Callas, la Tebaldi e il mio orgoglio di italiana

Wilma Vernocchi presso la Cooperativa Aerrem a Nova Siri
Un incontro casuale, ma ricco di sorprese. La più stupefacente è quella del giorno dopo, quando da uno sguardo su Wikipedia ci si accorge che Wilma Vernocchi, cantante lirica del Teatro alla Scala di Milano, è nata nel 1942. Si scopre solo allora di aver parlato con una quasi settantenne. Dicevano altro la piacevolezza dei suoi racconti, la vitalità e la dolcezza dei suoi modi, il fascino femminile ancora vivo e suadente. Ma, soprattutto, la bellissima voce con cui ha intonato un breve repertorio di canzoni napoletane su richiesta di Gaetano Dimatteo, il pittore lucano che l’ha invitata e accolta in riva allo Jonio.
Wilma Vernocchi è considerata uno dei più grandi soprani italiani del secolo scorso. Ha cantato alla Scala per quindici anni consecutivi, non di rado con ruoli da protagonista. E’ datato 1972 il suo debutto a Milano, nell'opera "Elisir d'amore" (Adina) con Luciano Pavarotti (1972). Nell'anno successivo fu "Mimì" al teatro Regio di Parma, con Josè Carreras e Katia Ricciarelli. Le porte del successo si erano aperte per lei due anni prima, nel 1970, con il trionfo al secondo “Word Wide Madama Butterfly Competition” di Tokio. Su e-bay sono in vendita ancora oggi, come cimelio per gli appassionati, le sue cartoline con autografo.
La nostra non è stata  appena un’intervista, ma una gradevole conversazione a più voci, nel clima festoso allestito dalla cooperativa Aerrem per la mostra di pittura dell’artista napoletano Sebastiano Topo a Nova Siri. Tante domande e una disponibilità a raccontarsi fuori dal comune, fin nei minimi particolari. A partire dall’infanzia, di cui Wilma ha parlato con sincerità viscerale quando le è stato chiesto di raccontare come sia avvenuta in lei, da bambina, la scoperta del talento vocale.
“Scoperta della voce da bambina? Ma se fino a quindici anni non avevo la voce neppure per parlare, tanto ero timida. Pensi che quando dissi in famiglia che avrei voluto studiare il canto, mio padre mi tolse il saluto: non lo avrebbe tollerato neppure per scherzo. Io, però, cominciai lo stesso a fare lezioni di nascosto, ma quando fu necessario portare in casa il pianoforte, furono dolori. In quegli anni, del resto, lo scetticismo di mio padre trovò un’apparente conferma: mi ero presentata, infatti, al Conservatorio di Pesaro (per noi di Forlì era il più rinomato, anche perché era stato quello di Renata Tebaldi), ma ero stata respinta. Sembrava finita, e così mi indirizzarono alle scuole professionali che avevano scelto per me.
E poi?
Poi iniziò il mio pellegrinaggio in tutta Italia. Io e mia madre (una donna fantastica che ha sempre creduto in me) ci mettemmo in giro per fare provini in ogni città. Ma non fu facile: quasi tutti mi dicevano che ero troppo timida e che la cosa non faceva per me.
Come è finita?
La faccio breve. Neppure dieci anni dopo quella ragazzina timida faceva Butterfly alla Scala di Milano.
Non male per una timida….

Certo. E ancora oggi, quando mi capita di fare un provino a ragazzi timidi, che in un primo momento possono sembrare stonati, offro sempre una seconda possibilità. Lo faccio perché io l’ho avuta, e l’ho avuta perché l’ho voluta, senza fermarmi al primo ostacolo.
E suo padre…
Ci ha messo tempo, ma alla fine ha dovuto ricredersi. “In che parte del mondo canta oggi la figlia?”, chiedeva a mia madre negli anni più brillanti della mia carriera, con un sottofondo di orgoglio che non riusciva a nascondere.
Il mondo della lirica. Da quale artista ha tratto maggiore ispirazione?

Nei venti anni di carriera teatrale ho evitato di ascoltare dischi per non subire eccessive contaminazioni vocali. Se però devo fare il nome di una rappresentante del nostro melodramma, credo di poter dire che la Tebaldi abbia toccato le vette più alte. Una straordinaria artista, sulla quale si può studiare. Avrei potuto indicare la Callas, ma c’è una differenza: la Callas va ascoltata e amata, ma su di lei non si può studiare, perché è talmente personale e unica da non poter essere imitata.
Ha conosciuto Maria Callas?
Certo, all’inizio degli anni ’70. Abbiamo lavorato assieme in Giappone, ma devo dire che quando l'ho incontrata era nel pieno della sua parabola discendente. Una larva umana, ricchissima ma infelice. Quando l'ho vista ridotta così ho detto a me stessa: "meglio tornare a fare la casalinga". Davvero, quell’incontro ha ridimensionato la mia percezione della carriera e della fama. Era una donna con gli occhi spenti, faceva pena. Tentò di salire sul palco e non ne aveva la forza, provò a dare indicazioni ma lo faceva sempre in modo confuso. Credo che una cantante dia il meglio di sé solo quando è serena. E stasera, forse, sto cantando e parlando così tanto proprio perché sto bene qui.
Ha lavorato anche con Placido Domingo…
Sì. Placido Domingo era un uomo che diffondeva in maniera potente la sua personalità. Amico di tutti, compagnone, simpatico, però mi sembrava che facesse tutto per raggiungere i propri obiettivi, ogni suo rapporto pareva finalizzato a questo. Non voglio che sembri una critica negativa, ma la mia impressione è stata questa. A certi livelli, del resto, ci si impone solo se si è fatti così, purtroppo…
Il momento più bello della sua carriera…
Un giorno del 1970, a Tokio. Ero lì per rappresentare l'Italia alla 2° Word Wide Madama Butterfly Competition. L’istante più intenso fu quello in cui proclamarono la vincitrice: “Italia, Wilma Vernocchi”. Fu bellissimo, perché scoprii il mio grande orgoglio nazionale, che ancora conservo intatto e sempre più vivo. Quella vittoria fu una sorpresa per tutti, anche perché ero la più giovane concorrente in gara. Ricordo di aver condiviso quel ricordo, anni dopo, con il ciclista Ercole Baldini, anche lui di Forlì, che a sua volta mi raccontò di quando aveva vinto le Olimpiadi in Australia. “Non avevano neppure l'inno nazionale – mi disse - tanto era inattesa una vittoria dell’Italia. Fu ancora più bello proprio per questo”. Accadde così anche per me.
Il Giappone, in quegli anni, divenne un po’ la sua seconda patria…
E’ vero, ho lavorato tantissimo in Estremo Oriente. Non solo in Giappone, anche nelle Filippine. Ancora oggi, nello storico Parco Glover di Nagasaki, dove è eretto un monumento a Madama Butterfly, c’è un piccolo giardino che porta il mio nome, un bel segno di stima con cui i giapponesi hanno voluto onorarmi.
Altre esperienze indimenticabili?
A Riga, davanti a un  coro di 13 mila persone che cantavano come se fossero una sola voce. Ripenso sempre a quell’istante di unità bellissima, quando mi torna in mente l’individualismo di cui soffre oggi, patologicamente, il nostro tempo.
Dal Giappone alla Basilicata: le sensazioni su questa vacanza lucana.
Appena arrivata ho provato subito un’immediata sensazione di riposo, stupita dalla bellezza delle colline e dei paesi illuminati. Il cielo era terso, pulito. E poi la gente: pronta all’accoglienza, simpatica, talentuosa. Pensi che la prima sera era in programma una mostra di Gaetano Dimatteo. Portavo ore di ritardo a causa dell’aereo (in teatro i tempi sono fondamentali, perciò non sopporto il ritardo) e così sono arrivata quasi alla fine, ma mi hanno accolta in modo eccezionale. Dopo un po’ mi sono ritrovata a cantare simpaticamente con due persone di Nova Siri. Tutto improvvisato, naturalmente. Questo spirito di improvvisazione, del resto, rende uniche certe serate. Anche il cibo qui è straordinario. In questi giorni ho avuto la fortuna di provare l’ottimo prosciutto locale e quel prodotto particolare che si fa prepara da queste parti (U’ pastizz di Rotondella, un calzone di carne, ndr).
Se dovesse racchiudere questi giorni lucani in una sola parola...
Una sola? Serenità.

di Pino Suriano pubblicato sul Quotidiano della Basilicata del 4 settembre 2011 - Inserto Q

Nessun commento: