Gentile direttore,
sento il dovere di qualche giudizio sul recente intervento di Vito Bubbico, pubblicato sul Quotidiano del 5 settembre con titolo “Il Calvario degli Englaro”. La sincera stima per il collega mi induce a saltare i convenevoli per dire subito che ritengo il suo commento ampiamente riduttivo delle vicende e dei fattori in gioco: il dramma di Eluana Englaro e della sua famiglia; la sentenza della Corte di Appello per l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale; il recente diniego della Regione Lombardia a predisporre le proprie strutture sanitarie per l’esecuzione della sentenza.
Dal commento di Bubbico emerge un quadretto per me semplicistico, che sintetizzo ricorrendo ad alcune sue espressioni: da un lato Beppe Englaro, il padre “dal viso dignitoso” in lotta per mettere fine alle sofferenze della figlia; dall’altro la direzione sanitaria della Lombardia, una banda di “baciapile integralisti”, che ostacolano ciò che un padre avrebbe ottenuto per legge.
E’ il quadretto più comunicativo ed efficace, che sfrutta bene un certo senso della pietà, buono per essere svenduto a chiunque voglia scandalizzarsi e imprecare ancora una volta contro gli “integralisti” cattolici schiavi del potere, che in questo caso hanno il volto di Carlo Lucchina, Direttore generale della Sanità Lombarda. Insomma, le consuete immagini per evitare ancora una volta di entrare nel merito della questione.
Chi è un po’ più sveglio, però, non rinuncia ad approfondire. E sicuramente avrà addosso qualche legittima domanda. Del tipo: perché mai qualcuno (in questo caso Lucchina) è disposto a giocarsi una posizione, a rischiare una gogna mediatica e a passare per crudele e impietoso? Non potrà essere, forse, per una passione ideale di qualche interesse o, addirittura, per difendere un proprio sacrosanto diritto?
E infatti c’è da chiedersi perché mai un direttore sanitario debba essere costretto a compiere un atto (predisporre strutture e personale per interrompere l’alimentazione di un paziente) che non rientrava tra quelli obbligati quando ha accettato il suo incarico, finalizzato a permettere la cura delle vite umane, non certo la loro interruzione! C’è da chiedersi se non abbia il diritto di rimandare al mittente chi pretenda di obbligarlo a ciò (Beppe Englaro), anche se questi creda di poter ottenere tutto con una sentenza, perfino ciò che la stessa sentenza non dice. Infatti (giungo al nocciolo dell’argomentazione) quella sentenza accoglie sì l’istanza di Beppe Englaro, ma non esplicita assolutamente chi sia obbligato a metterla in atto, non indica il luogo, e non indica che l’interruzione dell’alimentazione debba essere fatta dal servizio pubblico. E la mancata indicazione, forse, non è solo una svista del giudice, ma lo stratagemma per non far incappare subito la sentenza in una grave contraddizione: obbligare qualcuno a fare ciò che non solo potrebbe essere contro i suoi principi deontologici, ma addirittura contro le leggi che si è impegnato a rispettare accettando l’incarico. Quella contraddizione giudiziaria è ora venuta galla, anche grazie al coraggioso atto di Lucchina. Questa, peraltro, non è la sola contraddizione del caso. Non molti dicono, infatti, che è in atto il ricorso della Procura di Milano avverso quella sentenza. Come la mettiamo se poi questo ricorso porta a una sentenza opposta a quella della Corte d’appello, quando Eluana sarà già morta?
Anche sull’aspetto umano occorrerà dire qualcosa. Almeno per evitare che passi impunemente l’immagine di un cattolicesimo integralista, incapace di provare pietà per il dolore altrui e bramosa di imporre le proprie posizioni sulla vita umana, magari soltanto per un puro gusto autoritario e dogmatico. Insomma, senza un minimo bagliore di ragionevolezza. Chi è leale, ancora una volta, sa che le cose non stanno così. Pur senza la pretesa di dirimere questioni complesse, qualche precisazione può essere di aiuto.
Sull’origine e sul senso della vita, però, la nostra ragione non sa dire nulla; non può negare e non può affermare nulla, se non qualche piccola evidenza: ad esempio che ci siamo, che non ci siamo fatti da soli, che nell’istante presente non siamo noi a darci la vita e il respiro. Eppure la nostra ragione continua incessantemente a domandare quel senso, che nessuno ha mai potuto dimostrare, ma, allo stesso modo, nessuno ha mai potuto ragionevolmente negare.
Di fronte a questo dato di fatto, la ragione può affacciarsi e attendere questo senso o chiudergli preventivamente le porte, magari dandosi un senso da sé (denaro, potere, volontariato, etc.). Può sperare che anche l’istante più misero sia “per qualcosa” e perciò dignitoso (è l’uguaglianza cristiana) o che sia dignitosa e meritevole di continuare solo una buona vita vissuta con certe determinate caratteristiche (nel nostro caso lo stato di salute, in altri contesti storici addirittura il colore della pelle!).
Perciò c’è da chiedersi, con accento drammatico ma non pietistico: è più ragionevole l’attaccamento paterno e la sua convinzione che quella vita non abbia un senso? O lo è forse la “crudele perseveranza” (così la chiama Bubbico, io la chiamerei speranza) con cui tanti vogliono tenerla in vita, comprese quelle suore che con passione l’hanno accudita per anni e avrebbero desiderato curarla ancora proprio in nome di quella speranza di cui sopra?
La domanda non è banale. Non si dirime in un solo articolo, e neppure in cento. Di sicuro, però, non si può chiudere in qualche angusto e sbrigativo schema pietistico o manicheo!
9 set 2008
Il Caso Englaro e i facili schematismi
L'intervento pubblicato sulla rubrica "Botta e risposta" del Quotidiano
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2 commenti:
....perchè non inserisci l'articolo su cui ti esprimi in questo post e la risposta che hai ricevuto da Bubbico?
Semplicemente perché non ho il file.. Se lo hai a disposizione e me lo invii lo farò volentieri. ciao
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