23 feb 2010

"Perché ci hanno assolti". Intervista al quasi libero Angelo Falcone

Finalmente parliamo con lui. Per quasi tre anni abbiamo letto le sue lettere, guardato le sue foto, immaginato la sua disperazione. Adesso ascoltiamo anche la sua voce. Angelo Falcone è un ragazzo libero da poco più di due mesi, dopo circa tre anni di carcere in India per un’accusa di spaccio di stupefacenti. Lo ha assolto, il 3 dicembre scorso, l’Alta Corte di Shimla, che ha ribaltato la condanna a dieci anni inflitta nell’agosto 2008 da un altro tribunale indiano.

Libero? Si fa per dire, in verità. Angelo è ancora obbligato a rimanere in un paese che non è il suo, quel paese che è diventato nel suo Inferno. Almeno fino al prossimo 3 marzo, giorno in cui scadranno i novanta giorni concessi all’accusa per presentare un eventuale nuovo ricorso. Se non accadrà, Angelo e Simone (l’amico piacentino arrestato con lui) potranno finalmente chiedere il passaporto e fare ritorno in Italia. In questi giorni Angelo si è concesso una vacanza, dopo aver trascorso a Nuova Delhi il mese di dicembre, dove lo ha ospitato la giornalista free lance Maria Grazia Coggiola, che nei mesi scorsi si era occupata del suo caso. Adesso si trova in una regione del sud dell’India, sulle coste dell’Oceano Pacifico, il più lontano possibile dai luoghi “caldi” della sua triste vicenda.

Cominciamo dalla fine, dal momento in cui avete ascoltato in tribunale la sentenza tanto attesa…

Ma quale tribunale? In India gli imputati non sono presenti alla pronuncia della sentenza. Erano le due di notte, noi dormivamo. A un certo punto due guardie ci hanno svegliato e ci hanno fatto la festa. <> Noi, naturalmente, abbiamo subito pensato a uno scherzo. E invece era tutto vero.

Le guardie a festeggiare con voi?

Certo. In questi anni molti operatori del carcere sono diventati nostri amici. Ci chiamavano “gli ospiti”. Qualcuno è arrivato addirittura ad offrirsi per farci il letto. Avevano rispetto per noi, forse anche per la risonanza del caso. Non so dire bene il perché, ma ci trattavano da signori.

Insomma, l’esatto contrario dell’immagine che si fa passare delle carceri indiane.

Guardi, in India, per le strade, non c’è certo un bello spettacolo. La gente muore di fame e non ha certo i soldi per pagarsi le medicine. In carcere, almeno, il minimo indispensabile non manca. Qualcuno lo dice scherzando, ma forse è vero: si sta meglio dentro che fuori. Certo, non sono le condizioni dell’Occidente, ma in rapporto al tenore di vita che c’è da queste parti, assicuro che siamo stati benone.

E allora non è vera la notizia secondo cui dormivate per terra?

Altroché. No, no, quello è vero. Si dorme a terra con sette coperte. Ma è il regolamento, per il resto si sta benone, ripeto.

E tutti i luoghi comuni sull’igiene, le malattie delle carceri indiane?

Lasci perdere. In carcere c’è molta più pulizia che all’esterno.

Dopo i bei momenti passiamo a quelli più brutti. Come avevi reagito alla notizia della condanna a dieci anni in primo grado, nell’agosto scorso?

Guardi, ho vissuto dei momenti così brutti e pensato a cose tanto spaventose che preferisco non parlarne. Le chiedo questa discrezione…

Certamente. Torniamo alla sentenza di assoluzione. Più di qualche aspetto lascia perplessi. Voi avete accusato i poliziotti di tentata estorsione, loro hanno negato. Viene da chiedersi se in seguito alla vostra assoluzione ci sarà una conseguente imputazione dei poliziotti.

Macché, questo non succederà mai.

E allora ci spieghi, su che base vi hanno assolti?

Nella sentenza risulta che l’arresto sarebbe stato caratterizzato da una serie di vizi formali. I poliziotti, insomma, non avrebbero agito secondo le regolari procedure.

In che senso?

Le faccio qualche esempio, tra quelli che la Corte ha fatto rilevare. I poliziotti, nel verbale di arresto, indicano come orario di arresto le 5,30, come orario della perquisizione le 4,45. Una circostanza non plausibile rispetto alle loro dichiarazioni: avrebbero dovuto prima effettuare l’arresto e poi, eventualmente, perquisire. Un altro esempio sono i campioni di laboratorio: quelli indicati dai poliziotti avevano una sigla diversa da quella che appare in laboratorio. Incongruenze del genere, insomma.

Sembrano circostanze piuttosto palesi. Come mai, allora, non si era accorto di tutto questo il giudice che in primo grado, nell’agosto 2008, vi aveva condannati a dieci anni?

Guardi, secondo me tutti questi elementi erano emersi con chiarezza anche nel primo processo. Perché non siamo stati assolti? Semplicemente perché qui si usa fare in questo modo: il giudice del primo grado, soprattutto quando si ritrova in mano un processo con grossi quantitativi di droga (nel nostro caso ce n’erano, secondo la polizia, ben 18!) tende a rimandare la responsabilità ai successivi gradi di giudizio. E’ una sorta di regola non scritta. Ma già qualcuno, anche all’interno del tribunale, dopo la sentenza del 2008, ci aveva fatto capire come sarebbe andata a finire. Non potevamo dirlo pubblicamente, ma questa cosa ci ha lasciato sempre una certa speranza, anche se non sapevamo se crederci o meno.

E le cose, invece, come sono andate davvero?

Come abbiamo sempre dichiarato. Alle 9 eravamo in questa abitazione indiana dove sono arrivati i poliziotti, hanno perquisito e non hanno trovato nulla. Allora ci hanno portato in caserma ponendo problemi relativi all’affitto della casa e del passaporto e noi li abbiamo seguiti al “commissariato”, convinti che i motivi fossero questi. Ci hanno presentato un foglio, nel quale credevamo di firmare questioni relative alla nostra nazionalità e invece si trattava di una confessione, quella che ci avrebbe condannati a tre anni di Inferno.

Quell’Inferno, adesso, potrebbe finire presto. Il 3 marzo, se l’accusa non presenterà un ricorso. Allora, e solo allora, Angelo potrà sentirsi finalmente libero.

Pino Suriano - pubblicato sul Quotidiano della Basilicata il 19 febbraio 2010

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